L’incontro del 30 giugno ha rappresentato – grazie in primis alla relazione del relatore, il Professor Massimo De Angelis, nonché alle importanti suggestioni proposte dalla struttura tecnica del GAL Terre di Argil ed ai molti contributi, in alcuni casi spigolosi ma esternamente funzionali all’obiettivo precipuo del progetto e dell’attività, dei partecipanti al seminario.
Cooperazione e beni comuni rappresentano indubbiamente uno spazio semantico, un patrimonio, un vettore, un processo culturale di tensione e percezione immanente. Ergo sono fattori e variabili indispensabili alla strategia di sviluppo locale del GAL Terre di Argil e, probabilmente, anche per tutto il territorio e la dimensione agro-rurale di tutto il Lazio e del centro Italia.
Dalla crisi del modello di sviluppo di matrice liberista, alla crescita delle disuguaglianze su scala planetaria, all’inquinamento del pianeta, parlare oggi di beni comuni significa contribuire alla riflessione sul paradigma dello sviluppo locale.
Questo concetto si fonda, infatti, sulla valorizzazione delle risorse territoriali e delle identità locali, sulla valutazione dei bisogni umani fondamentali a cui i beni comuni potrebbero rispondere. Ma cosa sono, nel concreto, i beni comuni?
Una prima classificazione dei beni comuni li distingue in beni immateriali – come l’informazione, i saperi, la cultura – e in beni naturali ed ambientali. I primi, per la loro proprietà di essere moltiplicabili in misura potenzialmente illimitata e non essendo frazionabili, possono essere assicurati a tutti in assoluto, senza limiti di misura. Ai secondi, essendo beni non riproducibili all’infinito, è riconosciuta a tutti gli individui l’accessibilità parziale in condizioni egualitarie.
Tentando una loro identificazione, si possono distinguere almeno tre gruppi di beni comuni:
A. i beni comuni tradizionali che una determinata comunità gode per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca ecc.);
B. i beni comuni globali, quali aria, acqua e foreste, la biodiversità11, gli oceani, lo spazio, le risorse non rinnovabili (combustibili fossili come il petrolio ecc.);
C. i new commons, individuabili nella cultura, le conoscenze tradizionale, le vie di comunicazione (dalle autostrade alla rete Internet), i parcheggi e le aree verdi in città, i servizi pubblici di acqua, luce, trasporti
Bene comune, al singolare, può essere definito come “un principio immateriale che appartiene all’universo dei valori e include i diritti fondamentali: salute, lavoro, istruzione, uguaglianza, libertà”.
Al plurale, invece, i beni comuni possono essere intesi come “cose tangibili (come l’aria, l’acqua, la terra; ma anche proprietà immobiliari), delle quali la generalità dei cittadini o una specifica comunità può rivendicare la proprietà o l’uso”.
I beni comuni sono quei beni materiali e immateriali, il cui uso una collettività ritiene essere sottratto al diritto di proprietà e a forme di lucro, proprio perché funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, e all’interesse delle generazioni future.
L’acqua, quindi, ma anche il paesaggio, il territorio, le nostre risorse naturali e artistiche, spesso considerati terra di nessuno e invece caparbiamente difesi dalla Costituzione italiana (art. 9).
La Commissione Rodotà introduce la categoria più fluida e innovativa dei “beni comuni”, un ‘terzo polo’ della proprietà (rispetto a quella pubblica e privata) che si pone tuttavia in continuità con la proprietà pubblica.
I beni pubblici “si sottraggono alla logica proprietaria per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo”.
“I beni comuni sono risorse collettive, amministrate e gestite da comunità locali, beni che possono essere gestiti adeguatamente solo da chi conosce e appartiene alla comunità locale”.
È una posizione che attribuisce priorità al valore relazionale dei beni comuni e richiamano fortemente la domanda implicita di nuova partecipazione che la proposta contiene. In questa prospettiva i beni comuni sono visti come un’importante opportunità di promozione e diffusione di una nuova socialità e di legame sociale.
In un momento in cui la “distanza sociale” è, necessariamente e giustamente la parola d’ordine, potrebbe sembrare fuori luogo, fuori tempo, senza ritmo il parlare di cooperazione, di condivisione.
Ed invece i processi ed i percorsi di sviluppo rurale, di crescita sistemica del territorio, abbisognano di tali elementi a dimensione rurale, le province laziali stanno subendo un continuo processo di disarticolazione del tessuto sociale, culturale ed economico. Un’evidente difficoltà di coniugare, far parlare le diversità favorendo processi di “chiusura”, identitari.
Da un punto di vista agricolo la necessità di essere competitivi sul mercato, la traiettoria chiara praticata dalla UE e volta a favorire l’aggregazione dell’offerta (si pensi alle OP, che saranno ulteriormente rafforzate nella prossima programmazione PAC) hanno visto il rafforzamento degli oligopoli agroindustriali e la crescita dimensionale di un numero limitato di realtà aziendali.
Il peso degli archetipi e del passato, una lettura superata e volta all’accentramento di poteri praticato dal sistema della cooperazione, così come il fallimento di numerose esperienze cooperative della nostra regione, hanno creato un allontanamento culturale e reale da questo tipo di traiettoria.
Puntare sullo sviluppo rurale vuol dire cortocircuitare, tale lettura.
La ruralità ha bisogno di connettere i nodi, di costituire il senso e la prospettiva. Di creare lo spartito. Di immaginare un lessico che vada oltre le dinamiche NIMBY ed identitarie.
E’ una fase fluida magmatica in cui abbiamo necessità, urgenza, di dare nuova linfa alla cooperazione alla costruzione delle connessioni, delle sinapsi. Il tessuto rurale abbisogna di un’architettura, di una strategia, che non possono prescindere dal condividere, dal compartir.




